domenica 23 marzo 2014

Rassegna stampa del 23 marzo 2014

Da Corriere.it

La beffa del tetto agli assegni d’oro Funziona solo per Ciucci e Arcuri


Il governo Monti aveva stabilito nel 2011 che nessun manager pubblico avrebbe guadagnato più dei giudici della Consulta. Non è andata così
di SERGIO RIZZO

«Credo sarebbe un bel segnale se si chiedesse ai manager delle società di Stato di rinunciare completamente alla retribuzione fissa e accettare di essere pagati solo in funzione dei risultati di bilancio. Meglio: in funzione dei benefici, reali e misurabili, prodotti per la collettività». Questo proponeva due anni fa, in una lettera a «Repubblica», l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri. Erano i giorni in cui infuriavano le polemiche sul tetto agli stipendi fissato dal governo di Mario Monti al livello del presidente della Cassazione e quella provocazione scivolò via come l’acqua sul selciato. Ma Arcuri aveva centrato il problema. Destino ha voluto che fra i manager delle principali società di Stato sia stato praticamente l’unico, insieme al capo dell’Anas Pietro Ciucci, a vedersi ridurre la retribuzione a 302 mila euro.

L’antefatto. Siamo alla fine del 2011: Monti stabilisce che nessun burocrate statale potrà guadagnare più della Suprema corte. Il principio dovrebbe valere anche per i manager delle aziende pubbliche, ma siccome è un aspetto particolarmente peloso si decide di mandare la palla in tribuna: il regolamento lo farà il Tesoro. Insomma, campa cavallo. Per giunta, le migliaia di società locali non sono nemmeno sfiorate. Ma mentre in tanti già si fregano le mani per lo scampato pericolo, ecco il colpo di scena: in Parlamento passa un emendamento della leghista Manuela Dal Lago che fa scattare la tagliola per tutti. Il Tesoro riesce a metterci una pezza per le società quotate come Eni, Enel, Finmeccanica e Terna, che vengono così salvate... continua a leggere

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Senato, verso una rivoluzione soft
Il piano originale del governo modificato per ridare poteri a Palazzo Madama. Aumenta il numero di leggi per le quali bisogna passare da entrambe le Camere

Di Monica Guerzoni




ROMA - Quando Renzi annunciò la rottamazione di Palazzo Madama, molti senatori si scambiarono impressioni e paragoni ironici con il manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti: «Rimpiazzeremo il Senato con una Assemblea di controllo composta di 20 giovani non ancora trentenni...». Ma adesso, dopo settimane di battaglia sottotraccia, gli inquilini della «camera alta» si sentono più tranquilli. Sanno che dovranno votare la loro fine, eppure si sono convinti che sarà una rottamazione soft, che il Senato continuerà a chiamarsi Senato e non diventerà mai quella «Assemblea delle autonomie» del progetto originario.

Un asse trasversale è pronto a modificare profondamente la «bozza di lavoro» del governo. Senza buttare giù i tre paletti che Renzi aveva piantato con forza durante la direzione del Pd - solo i deputati danno la fiducia, i senatori non vengono eletti dai cittadini e sono a costo zero - Pd e Ncd hanno lavorato per annacquare il monocameralismo delle linee guida governative e rafforzare le competenze dei senatori. Un’operazione che potrebbe star bene anche allo stesso Renzi, il quale vuole fortissimamente portare a casa la modifica della Costituzione, senza però infilarsi in un Vietnam parlamentare. Ecco perché a preoccupare diversi renziani è adesso la tentazione di Palazzo Chigi di presentare ai partiti un disegno di legge governativo, invece di lasciarlo scrivere alle forze politiche.
Il ministro Maria Elena Boschi sta lavorando a un testo, con l’obiettivo di incardinare il ddl al Senato da qui a una settimana. «La cosa fondamentale è che non diventi un ente inutile e che non si vada verso un monocameralismo mascherato - avverte Gaetano Quagliariello, Ncd - Dobbiamo tenere assieme Senato e riforma del Titolo V». Il dilemma è: chi depositerà il provvedimento? Luigi Zanda media: «I parlamentari interverranno con i loro suggerimenti sul primo testo del governo, poi bisognerà decidere se verrà presentato dai partiti oppure dall’esecutivo. Si tratta di una riforma costituzionale, per la quale serve una maggioranza molto larga...»...continua a leggere.

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La strada è quella segnata da Grillo: occorre cambiare tutto con l'Europa. Il Fiscal Compact è già operativo e ci sta dissanguando senza neanche dirlo chiaramente. E per i prossimi 20 anni sarà così se non peggio. Per chi teme la svalutazione in caso di fuoriuscita dall'Europa, possiamo dire che la svalutazione di consumi e salari è già presente e continua senza soste, a tutto beneficio dei soli tedeschi. Almeno, svalutando noi, ci sarebbe un beneficio per le nostre imprese...

Ancora da Corriere.it


La crisi? 56 miliardi di tasse in più
Pressione fiscale: aumento annuo dell’1,6% sulle famiglie



di Raffaella Polato
CERNOBBIO (Como) – Cinque anni di pesantissima crisi. Cinque anni di insostenibile aumento della pressione fiscale. L’elenco dei “conti”, salatissimi, pagati da famiglie e imprese nell’arco di tempo della Grande Recessione comincia dall’aggravio di imposte per l’intero sistema economico italiano: secondo l’analisi Confcommercio-Cer, presentato sabato al Forum di Villa d’Este, solo le manovre correttive di finanza pubblica sono costate al Paese oltre 56 miliardi. E hanno evidentemente aggravato un quadro di depressione via via più profonda. Probabile che, viste le condizioni delle casse dello Stato, non ci fosse alternativa. Ma certo la fotografia scattata dall’associazione guidata da Carlo Sangalli è cruda, molto cruda. Quell’aggravio di 56 miliardi si è tradotto, intanto, in un aumento del livello di imposizione sulle famiglie pari all’1,6% medio annuo e al 10% nell’intero periodo. Tradotte, le percentuali diventano numeri ancora più brutali: il prelievo aggiuntivo è di 10 miliardi, cui vanno aggiunti gli 11 miliardi di potere d’acquisto perso per l’aumento dell’inflazione legato all’incremento delle imposte indirette... continua a leggere.







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